La Leggenda di San Giuseppe
Un uomo vecchio e povero girava di paese in paese chiedendo ricovero, ma tutti glielo negavano. Giunto proprio a Riccia, una di queste porte, finalmente, si apre, ed il proprietario, seppure non benestante, divise con il poveretto quel poco che aveva di ceci, fagioli e fave. Il popolo riccese non tardò a riconoscere in questo viandante il falegname di Nazareth, dando così inizio alla tradizione.
La tavola di San Giuseppe
La tradizione della festa di San Giuseppe a Riccia è molto sentita. Nei giorni precedenti il 19 marzo è tutto un viavai di donne indaffarate che si spostano tra le diverse abitazioni di parenti e vicine di casa e che aiutano e intervengono attivamente nella preparazione di una festa della quale, più delle altre, si avverte l'approssimarsi nei profumi che si diffondono dalle cucine.
Delle origini e dell'introduzione della festa di San Giuseppe nella nostra comunità si conosce in effetti molto poco. Il culto del santo ebbe una progressiva diffusione in Italia dopo il X secolo. Nel 1470 Papa Sisto IV lo inseriva ufficialmente nella liturgia, consacrandogli il diciannovesimo giorno di marzo, ma solo con l'Ottocento la sua importanza poteva dirsi completamente riconosciuta. Nel 1870, infatti, San Giuseppe veniva dichiarato patrono della Chiesa universale.
Il primo altare a Riccia in suo nome, consacrato nella chiesa dell’Annunziata, porta la data del 1883. Il Brunetti, con un suo dipinto del 1690, lo vede ritratto, insieme ad altre figure e con il suo emblematico bastone fiorito, alle spalle dell'altare maggiore della chiesa dell'Immacolata Concezione, già cappella del soppresso Convento dei Cappuccini, in Piazza Umberto I. San Giuseppe è il Santo per eccellenza della pietas popolare, assunto a modello dalle classi più povere e padre che nutre e protegge la famiglia. Lo stesso, è stato rivestito di volta in volta di tutte le principali virtù tra cui spiccano quelle della solidarietà e dell'ospitalità. Proprio per rimarcare l'importanza di queste ultime doti cristiane sono nati e si sono sviluppati un po' su tutto il territorio nazionale, ed in maniera particolare nel Meridione, diversi riti, legati all'offerta e al consumo di cibo, fatti propri soprattutto dalle classi contadine ed artigiane.
A Riccia, tale devozione, è nata da una leggenda tramandata ancora oggi: un uomo vecchio e povero girava di paese in paese chiedendo ricovero, ma tutti glielo negavano. Giunto proprio a Riccia, una di queste porte, finalmente, si apre, ed il proprietario, seppure non benestante, divise con il poveretto quel poco che aveva di ceci, fagioli e fave. Il popolo riccese non tardò a riconoscere in questo viandante il falegname di Nazareth, dando così inizio alla tradizione. Il rito è affidato alla spontaneità dei singoli nuclei familiari che provvedono ad invitare tre persone, rappresentanti la Sacra Famiglia, a cui offrono un accurato e raffinato banchetto.
In genere, alcuni giorni prima nelle case di chi svolge la festa vengono allestiti degli altarini con una immagine del santo. Nelle famiglie dove ancora resistono marcate caratteristiche penitenziali la padrona di casa, o l'intero nucleo familiare, osserva nei setti mercoledì prima del 19 marzo uno stretto regime alimentare, non mangiando assolutamente carne. Il pranzo offerto agli ospiti e alla Sacra famiglia, impersonata da un uomo sposato (il San Giuseppe), da una donna celibe o nubile (la Madonna) e da un giovane non sposato (il Bambino) è generalmente di magro, detto di scàmpere. Le pietanze servite sono in numero variabile da 13 a 19. Prima dell'inizio del banchetto vengono recitate in ginocchio alcune preghiere, in genere le sette allegrezze, e poi, seduti a tavola, viene passato tra i presenti il primo bicchiere di vino ed il primo pezzo di pane che tutti i commensali devono assaggiare rigorosamente dopo i “santi”. A servire è la padrona di casa, anticamente scalza, aiutata in genere dalle figlie, che non partecipa però al convito, e non siede neppure nella stessa tavola dei santi. Gli alimenti sono quelli della cucina povera: il pane, per cominciare, che si ritrova "smollicato" nei maccheroni, come ripieno nei peperoni, e ancora nel baccalà e nei cavolfiori arracanati. I legumi, ceci, fagioli, lenticchie, conditi con olio extravergine di frantoio e segno di augurio e di abbondanza. Il baccalà, dalle sapidi carni, cucinato in tanti modi. Infine, i dolci, simbolo di agiatezza: riso con il latte e spolverata di cannella; agrodolce: denso impasto di mandorle e mosto cotto; biscotto con le uova da inzuppare nel robusto vino casalingo; e….cavezune: l'espressione più alta e commovente della genialità gastronomica affinata generazione dopo generazione. Ci sono in verità tante altre pietanze e, anche, le solite distorsioni consumistiche contemporanee dimentiche del tempo di Quaresima. La festa non più di magro (càmpere) e non più legata alla preparazione e al consumo di questi specifici prodotti diventa un momento festivo come altri, un modo di stare insieme convivialmente, che nulla toglie alla devozione verso il santo, ma molto al rispetto della tradizione. Terminato il lungo pranzo si recitano di nuovo le preghiere e viene offerto ai "Santi" un cesto contente una pagnotta di pane, un assaggio delle pietanze servite e un numero dispari di cavezune. Successivamente inizia il via vai tra le abitazioni di persone, con profumati cartocci in mano che recano la consueta "devozione" ad amici e parenti.
Negli anni passati erano numerosi i forestieri che aspettavano l’occasione della festa per bussare di casa in casa e riempire il proprio sacco di ogni offerta ricevuta.